Cento ritratti, cento storie, cent’anni di straordinaria arte, da Canova a Modigliani
Padova, Palazzo Zabarella dal 2 ottobre 2010 al 27 febbraio 2011
La mostra intende ripercorrere la straordinaria vicenda, in gran parte ancora inesplorata, del genere artistico del ritratto nel corso del XIX secolo. Genere nel quale, più che in altre forme di pittura e in altre tecniche, si sono manifestati durante l’Ottocento i mutamenti del gusto, anche grazie ai rapporti intercorsi tra gli italiani e le schiere di stranieri che hanno attraversato la penisola, soggiornando a Napoli, Roma, Firenze, Milano e Venezia.
Una prima, decisiva rivoluzione nel genere del ritratto, elaborata sul versante teorico da figure dell’importanza di Francesco Milizia o, in ambito internazionale, dell’inglese Joshua Reynolds, si manifestò con agli inizi del secolo, nel pieno del neoclassicismo, quando sotto le insegne del “Bello Ideale” di Canova veniva sperimentata una sintesi naturalistica che fosse in grado, attraverso nuove sintesi formali, di restituire lo spessore psicologico-intellettuale degli effigiati e di rappresentare, anche idealmente, i protagonisti politici e intellettuali della nascente modernità.
Questi radicali mutamenti, che coincidono storicamente con l’età napoleonica, ebbero i loro portavoce in artisti dal prestigio di Antonio Canova, Lorenzo Bartolini, Bertel Thorvaldsen, Jean-Auguste-Dominque Ingres, Andrea Appiani, Giuseppe Bossi, Pelagio Palagi, e i numerosi stranieri presenti in Italia.
Con le istanze neoclassiche vennero riformulate in un’accezione assolutamente inedita le varie tipologie del ritratto, da quello d’artista a quello intellettuale, da quello ufficiale a quello ambientato, reimpostati in nome di una sintesi espressiva che sapesse cogliere, con pochi mezzi che talora si fermano al non finito, l’anima dei ritrattati.
Questa impostazione venne mantenuta anche durante la stagione romantica, quando, persistendo lo strumento visivo della imitazione selettiva della natura e della semplificazione formale dell’effigie, il ritratto avrebbe delineato più intimi stati sentimentali e dello spirito, proprii della cultura più esclusiva e riservata della Restaurazione. E così, mentre ad opera di critici come Leopoldo Cicognara, Antonio Neu-Mayr (entrambi veneti), Carlo Tenca o Giuseppe Rovani si avviava una riconsiderazione teorica del genere, artisti come Francesco Hayez, Pelagio Palagi o Lorenzo Bartolini, figure di respiro nazionale, come Giovanni Tominz a Trieste, Gaetano Forte a Napoli, Pietro Ayres a Torino, Giuseppe Bezzuoli a Firenze, Adeodato Malatesta in Emilia, Placido Fabris a Venezia, Giuseppe De Albertis e Molteni a Milano, il russo Brjullov itinerante per l’Italia diedero consistenza visiva a questa connotazione intimista del ritratto o, su un altro versante altrettanto emblematico, alle effigi mondane e sfarzose della nuova classe borghese.
Queste immagini sono rimaste nell’immaginario collettivo dell’Ottocento e sono ancora in grado di catturare passioni, stati d’animo e moti interiori. Mentre la tipologia ben codificata del ritratto d’artista rivela una grande forza introspettiva e soluzioni di assoluta originalità, se pensiamo agli autoritratti di Tominz, Giacomo Trécourt. In un ambito analogo i dipinti di Jean Alaux, Carlo Canella e Angelo Inganni hanno inserito i ritrattati nello spazio privato dei loro atelier. La stessa forza espressiva, insieme a soluzioni compositive inedite, si rivela nei ritratti di Manzoni di Hayez e Molteni, di Byron a Missolungi di Trècourt o nelle straordinarie immagini dei protagonisti delle scene teatrali, come il tenore Giovanni David di Hayez. Con la metà del secolo, in un momento immediatamente successivo agli eventi fatidici del 1848, le istanze del naturalismo, sovvertendo le valenze ideali del Romanticismo, hanno profondamente rinnovato il genere, dando ascolto alla voce del Vero. Se alcuni artisti di grande valore, come Hayez hanno saputo reggere ancora il confronto con la nuova era e un grande outsider come il Piccio è stato interprete in Lombardia di una grande tradizione che scorre ininterrotta da Leonardo ad Appiani, sarà la Firenze dei Macchiaioli ad offrire in chiave verista gli esiti più significativi. Le straordinarie sperimentazioni di Giovanni Fattori o Silvestro Lega tra gli anni ’50 e ’60 si sono ricongiunte alle indagini naturalistiche di Puccinelli, Giovanni Morelli e Bernardo Celentano.
Mentre il prepotente e conflittuale rapporto che si instaura con la fotografia a partire dagli anni sessanta è ben documentato dalla presenza di Vincenzo Gemito, dagli autoritratti di Francesco Paolo Michetti o di Alessandro Guardassoni davanti alla macchina fotografica.
Dopo l’unità d’Italia il ritratto seguirà straordinari percorsi sperimentali, toccando vertici difficilmente eguagliati nel resto d’Europa. Abbandonando il principio di verosimiglianza e cercando soluzioni inedite per rappresentare il mondo interiore dei ritrattati, la grande e lunga stagione del Simbolismo produrrà capolavori assoluti.
Prima la Scapigliatura di Tranquillo Cremona, Daniele Ranzoni o Medardo Rosso, poi il Divisionismo di Giuseppe Pellizza da Volpedo, quindi il Simbolismo che fa riferimento all’estetismo di Gabriele D’Annunzio ed elabora i nuovi miti della modernità con Giovanni Boldini, Ettore Tito, Mosé Bianchi, Giacomo Grosso, Vittorio Corcos, Cesare Tallone, Emilio Gola, porteranno a nuovi e altrettanto suggestivi esiti sia sul piano compositivo che delle soluzioni pittoriche.
Si raggiungeranno così quei confini che preludono al Novecento, rappresentato in mostra dai dipinti ancora divisionisti, e pertanto proiettati nell’Ottocento, di Giacomo Balla, di Umberto Boccioni e di Gino Severini. In loro la dissoluzione dell’immagine, la rottura delle convenzioni dei generi pittorici e la sovrapposizione del ritratto al paesaggio e alla pittura di figura apriranno la strada al nuovo mondo delle avanguardie. Iniziava così un’altra storia che avrà come centro quella Parigi che intanto aveva accolto come protagonisti lo stesso Severini e un grande italiano come Modigliani.
Nessun commento:
Posta un commento